Una rete subita dopo un minuto, l’altra meno di 20 secondi dopo l’inizio della ripresa. Questo vuol dire non esserci con la testa, non entrare in campo. Un black-out, quelli di cui la Juve ci ha abituato (ricordi che anticipano la pausa natalizia) e che a volte ritornano… e ridimensionano una squadra in evoluzione.
La partita del Do Dragao è stata la fedele dimostrazione di tutto questo, un match decisivo al quale nessuno si è presentato, perché quando si perde in questa maniera la colpa è di tutti, società compresa. Da quattro anni la Juventus non si fa trovare pronta per la fase a eliminazione e sbaglia la prima partita, fino a compromettere la qualificazione al turno successivo di Champions League. Quella dei turni di andata sembra una maledizione che non vuole abbandonare la “Vecchia Signora”, tanto che l’ultima volta che ha vinto gli ottavi è stato proprio contro il Porto nel 2017.
Non scopriremo niente di nuovo nel dire che la Juve soffre mentalmente questa competizione, la “sindrome della Coppa dalle grandi orecchie” potremmo definirla. La paura di non farcela pur essendo consapevoli di esserne all’altezza. Non si spiegherebbe altrimenti un atteggiamento del genere, difficoltà immense contro buoni avversari ma decisamente inferiori a questa squadra.
Un passo indietro anche per Pirlo, il golden boy degli allenatori, la scommessa della società – che per modesto parere ha già ripagato le aspettative – al quale si chiede di raggiungere obiettivi importanti. La Juve chiede di più, peccando forse nello sperare troppo in quel miracolo chiamato calcio, dove tutto è possibile. Invece, esiste anche la realtà, il concreto e l’errore. Sbagliare è necessario per imparare, è umano… ma non a tutti gli errori si può sempre rimediare. Ecco perché l’esperienza il più delle volte paga. Fortuna, però, che non è ancora questo il momento di tirare le somme, c’è sempre il ritorno… dopo la partita di lunedì, banco di altre risposte da parte di tutti.